Espresso chiesa Oswaldo Payá Sardiñas e gli 11 mila che a Cuba hanno firmato la richiesta di referendum per le libertà non sono soli

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Fidel Castro per saecula saeculorum

L´»intoccabilità» del suo regime è divenuta dogma costituzionale. Ecco come il Líder Máximo schiaccia i virgulti di libertà. E umilia la Chiesa

di Sandro Magister

Mercoledì 12 giugno pioveva a dirotto sull´isola, eppure erano tutti in strada a marciare. Anche nei villaggi più sperduti. Novecentoquarantasette cortei, più quattordicimilasettecento comizi di zona, con un totale di 9.664.685 cubani mobilitati, stando ai contabili del regime. La sera prima, in televisione, Fidel Castro l´aveva detto chiaro: solo le donne incinte e i vecchi invalidi o asmatici erano dispensati dalla «Gran Marcha».

E non era finita. Dopo la marcia, tutti in fila a firmare una petizione di riforma della Costituzione. Anche qui con un diluvio di adesioni. Il 18 giugno il responso ufficiale: più di 8 milioni le firme raccolte, pari al 99,3 per cento dei cittadini sopra i 16 anni. Altri dieci giorni e il parlamento cubano, all´unanimità, dà per fatto il referendum e vota le modifiche costituzionali richieste. Tutto per infilare nella Carta una parola in più: «intocable». Applicata al «régimen polÍtico, económico y social» in vigore da 43 anni a Cuba.

Intoccabile. Perché qualcuno ci ha provato davvero a mettervi mano. La mobilitazione kolossal «a difesa del socialismo» orchestrata da Castro ha finto di scagliarsi contro gli Stati Uniti d´America. Ma il vero nemico era in casa: un manipolo di democratici genuini, cubani con tanta voglia di libertà, che sono riusciti a infilare un cuneo negli ingranaggi della dittatura castrista.

Oswaldo Payá Sardiñas è il capitano coraggioso di questa compagnia d´assalto. Aveva 17 anni nel 1969, quando per qualche parola critica scappatagli a scuola finì ai lavori forzati nelle piantagioni di canna e nelle cave di pietra, a sudare 10 ore al giorno per tre anni di fila.

«Ne venni fuori con una fede più forte che mai nelle nostre capacità di cambiamento», dice oggi che di anni ne ha 50 ed è diventato il dissidente cubano più famoso nel mondo. La notorietà è il suo scudo. Ai primi di maggio, quando l´ex presidente americano Jimmy Carter ha visitato Cuba, Oswaldo Payá è entrato in tutti i notiziari. E subito dopo nella lista dei futuri Nobel per la pace. La «Gran Marcha» indetta da Castro l´ha criticata senza alcuna timidezza: «Definire intoccabile il regime politico, economico e sociale vigente è una pura e semplice autoproclamazione di totalitarismo».

Lui, per cambiare questo regime, l´ha studiata ben bene. Nella Costituzione cubana c´è un articolo, il numero 88, che impegna il parlamento a esaminare le richieste sottoscritte da almeno 10.000 cittadini. Nessuno in passato vi aveva mai fatto in ricorso. E invece perché non provarci? Oswaldo Payá lanciò l´idea e ne nacque un anno fa il Progetto Varela: una richiesta di referendum su cinque punti di riforma costituzionale.

I cinque punti sono il diritto di libera associazione, il diritto alla libertà di parola e di stampa, l´amnistia per i detenuti politici, il diritto di costituire imprese private, libere elezioni multipartito entro un anno dal referendum.

Payá e i suoi intitolarono a Varela questo pacchetto di riforme perché Félix Varela è un padre della patria e un simbolo di libertà. Sacerdote e uomo di cultura, vissuto nella prima metà dell´Ottocento, è stato per Cuba quello che in Italia sono stati l´abate Antonio Rosmini e don Luigi Sturzo: un grande teorico della politica, d´impronta cattolica liberale, e un politico lui stesso.

E questa è anche l´ispirazione di fondo di Oswaldo Payá e degli altri 140 gruppi che hanno aderito al Progetto Varela. Sono in gran parte cattolici. Payá ha fatto le ossa in una parrocchia dell´Avana e nel 1988 ha fondato un Movimiento Cristiano Liberación. Ma sia lui che gli altri non hanno niente a che vedere con la marxisteggiante teologia della liberazione in voga nell´America latina. Piuttosto, rispondendo ai cronisti durante la visita di Carter a Cuba, Payá ha suggerito un altro parallelo. Con la Polonia di Solidarnosc e di Lech Walesa, e il suo pacifico passaggio dal comunismo alla democrazia.

Contro i dogmi del castrismo è sferzante. «La scristianizzazione di Cuba l´hanno voluta per sottomettere il popolo alla paura e al potere», ha detto in un´intervista al giornale della diocesi di Miami in Florida, piena di emigrati cubani.

Raccogliere le firme necessarie per portare il Progetto Varela in parlamento non è stato facile. Era come iscriversi a una lista di proscrizione. «Eppure siamo riusciti a rompere la paura, comprensibile in un paese dove lo Stato è anche l´unico datore di lavoro», dicono i promotori. Nella primavera di quest´anno le firme raggiunsero quota 11.020. Il 10 maggio Oswaldo Payá depositò la petizione in parlamento.

E il regime? Zitto. Un suo rappresentante ha aperto bocca solo per dire che i promotori del Progetto Varela sono «a libro paga degli Stati Uniti». Quanto alla polizia, tiene sotto pressione i firmatari. Uno dei più in vista, Ernesto MartÍnez Fonseca, l´hanno messo quattro giorni in prigione, ai primi di giugno

Finché a Fidel Castro è venuta l´idea di spazzar via l´incomodo organizzando «la più grande manifestazione di tutta la storia di Cuba». Tutti in piazza e tutti a firmare la contropetizione per blindare per sempre il regime.

Potenza dei numeri: 8 milioni contro 11 mila. Castro sapeva che il parlamento avrebbe dato «doverosamente» la precedenza ai primi. E una volta scritto in Costituzione che il castrismo è «intocable», ora sogna che sulla sua dinastia non tramonti più il sole.

Ma anche la Chiesa ha i suoi fedelissimi

Oswaldo Payá Sardiñas e gli 11 mila che a Cuba hanno firmato la richiesta di referendum per le libertà non sono soli. Dietro di loro, discreta, si muove la Chiesa. Lo scorso ottobre i cattolici cubani hanno celebrato una Settimana sociale. E tra le linee d´azione votate all´unanimità hanno messo in cima proprio il Progetto Varela, che è il nome dato all´iniziativa.

Alla Settimana sociale sono intervenuti il nunzio a Cuba, Luis Robles, il cardinale dell´Avana, Jaime L. Ortega y Alamino, e un dirigente venuto da Roma del Pontificio consiglio Iustitia et Pax, monsignor Frank J. Dewane. Ad ascoltarli c´era la potenziale nuova classe dirigente di una futura Cuba libera.

Della quale il personaggio più rappresentativo è Dagoberto Valdés Hernández, ingegnere agrario che di professione fa il tagliatore di rami di palma, ma che è anche direttore del Centro di formazione civica e religiosa della diocesi di Pinar del Rio, fondatore del mensile di cultura e politica «Vitral» e membro di Iustitia et Pax per volere di Giovanni Paolo II, che lo conosce e stima.

Di norma vescovi e preti, a Cuba, sono molto prudenti quando parlano in pubblico. Ma con alcune eccezioni. Il vescovo di Santiago de Cuba, Pedro Claro Meurice Estiú, non manca di scagliarsi dal pulpito contro i «falsi messia». Mentre all´Avana fanno rumore le prediche del carmelitano Fidel de Jesús contro «i falsi mistici della rivoluzione» e «i falsi santi». A cominciare da Ernesto «Che» Guevara, «il più falso di tutti

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